Esiste in ognuno di noi, più o meno marcatamente, una pulsione che ci spinge ad esplorare nuovi mondi, reali od immaginari che siano… Una pulsione che ha segnato felicemente l’evoluzione del genere umano, tanto quanto “l’invenzione” del bipedismo o la fabbricazione di utensili. Una scintilla presente già nel nostro antenato comune, che milioni di anni fa lasciava la sua culla africana. Un bisogno di esplorazione che gonfiò anche le vele delle tre caravelle di Colombo e riempì i serbatoi di tetrossido di azoto del L.E.M. che toccò il suolo lunare.
Ma il genere umano, grazie allo sviluppo della sua psiche, è stato anche capace di rispondere a queste ataviche spinte creandosi costrutti intellettuali. Il reale non è mai stato sufficiente ad appagare questa sete di esplorazione. L’artificio invece, definibile come espediente diretto a ottenere effetti estranei o non consentiti dall’ordine naturale, è da sempre stato adoperato per giungere a questo risultato.
Tutte le forme artistiche, e sottolineo tutte, sono state generate a partire da questo impulso. Ciò che le differenzia è ovviamente la tecnica, ma il fine ultimo è sempre quello di offrire una nuova realtà, più bella, ideale.
Dalla notte dei tempi, ad ogni latitudine del globo, l’uomo ha prodotto innumerevoli immagini, spesso con funzioni eterogenee: magico-religiose, estetiche o politiche. Ciononostante si contano sulle dita di una mano quelle civiltà che sono state capaci di sviluppare quel genere letterario, capace di disporre una narrazione cronologica, sulle opere, su i loro creatori, sul contesto dove essi operano, e sul loro valore. Un genere letterario che oggi definiamo “Storia delle arti”. Quindi è corretto ricordarsi che da sempre è stata fatta arte, assai più raramente “Storia dell’arte”.
Ciò non deve comunque mai indurci a credere che una civiltà sprovvista di questo genere di letteratura (concetti espressi su carta in fin dei conti…), non sia capace di esprimere arte di gran qualità. Un esempio immediato e concreto lo dava il grande Federico Zeri, parlando della Sardegna quale terra che non ha prodotto grande pittura, se non importandola, rimanendo comunque uno scrigno di cultura immenso. Un tesoro impareggiabile costituito da canti tradizionali, danze e costumi e cucina.
Nella versione più “mediterraneocentrica” della storia delle arti, quella più facilmente comprensibile per noi “occidentali” (termine che personalmente aborro), assistiamo alla definizione di quel piacere e di quella sensibilità nella ricerca della bellezza che oggi chiamiamo estetica. L’etimo di questa la parola significa per l’appunto “percepire attraverso la mediazione del senso”. E’ quindi grazie alla civiltà greca che si comincia a dare il nome alle cose. Tutti i canoni della bellezza ideale vengono definiti a partire da questo momento storico.
Grazie alle nostre capacità sensoriali possiamo fruire della bellezza che l’arte tutta riesce ad emanare (godere dei suoi frutti): con i padiglioni auricolari percepiamo il volo di un calabrone, ma in realtà stiamo solo ascoltando la partitura del compositore russo Korsakov. Con i polpastrelli percepiamo la fitta rete da pesca che avvolge la statua di Giangiuseppe Origlia nella magnifica Cappella Sansevero, senza farsi trascinare nell’inganno di credere che non sia fragile marmo. Con i bulbi oculari ricostruiamo le figure formate da ampie campiture di pittura interpretate dal maestro Fattori nel quadro “Soldati francesi del ’59“.
Indipendentemente da quanto un individuo possa essere erudito o meno, cioè da quanto possa essere vasto il bagaglio culturale posseduto, l’arte è una questione di sensibilità e percezione. E come si forma negli individui questa sensibilità? Siamo tutti in grado di poter percepire l’arte?
Io credo che ogni individuo sulla terra, a meno che si trovi disgraziatamente a non poter disporre di una qualsiasi percezione dello spazio intorno a se, abbia tutti gli strumenti necessari per poter godere delle bellezze dell’arte. E’ vero anche che oggi non viene fatto abbastanza per tutte quelle persone affette da disabilità motorie e sensoriali.
Esempi illuminanti di didattica per non vedenti si sono concretizzati a partire dal 2009 presso gli Uffizi, con dei percorsi tattili, cioè affiancando alle opere esposte le rispettive riproduzioni in linguaggio braille. Un’iniziativa che a mio parere dovrebbe diventare la regola in tutti i musei del mondo. Come del resto anche quella di affiancare a tutte le manifestazioni musicali un traduttore nella lingua dei segni.
La percezione della bellezza attraverso la mediazione sensoriale, avviene comunque anche in quei soggetti impossibilitati a “farlo a pieno”. Avviene ma con modalità differenti: con il ventre si possono percepire le vibrazioni della musica mentre un traduttore ci racconta il testo di una canzone d’amore. Con i polpastrelli si può ricostruire le sagome delle case che popolano le città d’arte che abitiamo, grazie all’ausilio di un plastico, o visitare la personale di un artista.
Appurato che l’arte è di tutti e si rivolge sempre e comunque a tutti, potremmo fare un discorso diametralmente diverso rispetto alla sua capacità di colpire l’intelletto umano.
Credo che ci sia un fattore, identificabile, misurabile e verificabile, che possa definire diversi gradi di sensibilità estetica che si rivolgono all’arte, quello ambientale. In una sorta di parallelo tra discipline, coerentemente alla mia natura professionale di investigatore e studioso d’arte, mi riserverei di prendere in prestito la teoria criminologia delle “Finestre rotte”, ideata dagli scienziati sociali James Wilson e George Kelling. I loro studi dimostrerebbero che i segni visibili di degrado sociale creerebbero un ambiente urbano capace di incoraggiare la recrudescenza della criminalità. In poche parole, l’ambiente gioca un ruolo chiave nello sviluppo di una comunità sana.
Ad esempio, mi risulta difficile credere che il povero operaio di una grigia ed inquinatissima metropoli cinese, pur essendo il discendente di un grande artista della bottega imperiale, pur avendo magari anche una predisposizione naturale al bello, possa comunque sviluppare un senso estetico articolato. Semmai, a forza di pedalare tra i miasmi delle industrie, riempiendosi ogni giorno lo sguardo con del cemento armato, depresso e rassegnato per la sua situazione sociale, potrebbe quasi diventare indifferente a ciò a cui non è abituato.
Con un certo senso di colpa faccio questo paragone, pensando alla mia fortunata situazione.
Vivo in una bellissima città sorta in epoca etrusca e sviluppatasi come colonia romana, cinta da da solide mura, trasformate in epoca napoleonica in un sublime giardino pensile. Ad un tiro di schioppo ho le bellezze di Firenze e del suo rinascimento. Vivo nel bel paese! Cammino ogni giorno letteralmente sopra strati di storia e civiltà, vere e proprie fondamenta della nostra civiltà contemporanea.
Si è vero… Non si può scegliere il luogo dove nascere, ma si può scegliere di educare alla bellezza.
Al povero operaio cinese si potrebbe quindi facilmente accostare la figura, tutta nostrana, del grande Peppino Impastato per compiere un ulteriore paragone:
«Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».
Non rassegnamoci mai allora…La bellezza è un bisogno primario, oltre che un diritto.
Matteo Cannella