Fortunatamente, nella storia dell’arte, non pochi sono stati i momenti ricchi di innovazione, capaci di generare creatività in maniera diffusa in svariate civiltà del nostro pianeta.

Uno dei più incredibili è sicuramente il XX° secolo.

All’alba del novecento, erano maturi i presupposti capaci di innescare una rivoluzione così grande da far si che in tutto il mondo esplodessero, quasi contemporaneamente, innumerevoli movimenti intellettuali, correnti, e stili artistici differenti mai visti prima d’ora.

Avanguardia è la denominazione universalmente accettata che si da a questo fortunato momento storico, dove le idee più audaci, provocatorie, estremiste ed innovatrici si posero sempre in anticipo, e spesso anche in antitesi, su i gusti e sulle coscienze di tutti.

Fu una sorta di reazione, più o meno coordinata, più o meno organizzata, al predomino delle mentalità utilitaristiche del commercio, dei modelli della tradizione imposta nei secoli dagli “accademismi”, con il diffuso rifiuto di tutti canoni artistici. In due parole: fu il grande rifiuto alla banalità.Ovviamente tale fermento non poté fare a meno anche di connotazioni politiche, partendo dal fatto che ci si poneva in contrapposizione con l’idea, tutta ottocentesca, tutta romantica dell’artista genio solitario, unico fautore della sua maestria, con il lavoro collettivo di un manipolo di intellettuali in avanscoperta in un mondo spesso ostile, fuori da ogni istituzione ed organizzazione.

I Futuristi, Russolo Carrà Marinetti Boccioni Severini nel 1916.

Fu una vera e propria sfida, un guanto di velluto scaraventato in volto ad un calcificato sistema dell’arte che, col senno di poi, non sarebbe sopravvissuto comunque.

L’immagine più iconica, capace di restituirci qualche vaga idea di questa epocale cesura nella storia dell’arte, la offrirono in tempi non sospetti, già nella prima decade del novecento, maestri come Vassily Kandisky e Giacomo Balla, i quali, con un balzo da veri giganti, superano perfino la dipendenza da tutti i tipi di referenze visuali codificate fino a quel momento, brevettando l’astrattismo più puro.

“Primo acquarello astratto”, Vasilij Kandinskij, 1910, matita, acquarello e china su carta (49,6×61,8 cm), Centre Pompidou, Parigi.

Tutto questo spirito innovativo prosperò in tutti i paesi del vecchio continente fino agli anni trenta.

A partire da quel momento la sequenza degli eventi storici prende una brutta piega per quanto riguarda la libertà espressiva: infami roghi di libri, persecuzioni di ogni genere ai danni di intellettuali che si “macchiarono” della colpa di non salvaguardare a sufficienza lo spirito di una insulsa porzione, abitata da una popolazione in preda al deliro di considerarsi superiore agli altri, di un piccolo granello di sabbia sospeso nel cosmo che chiamiamo Terra.

In questo triste momento della storia umana il nazionalsocialismo tentò in tutte le maniere di soffocare ogni tipo di innovazione culturale, favorendo invece l’espressione di concetti vicini ai vari neoclassicismi, impregnati di messaggi volti solo ed esclusivamente ad esaltare vane virtù di una tradizione culturale asservita solo al messaggio hitleriano.

Bücherverbrennungen, il “roghi di libri” del 1933 nella Germania nazista.

Ecco così che Hitler, che si definiva un grande conoscitore dell’arte, che in gioventù tentò invano di entrare in Accademia a Vienna, che fu disegnatore dilettante di alcuni paesaggi ma pessimo ritrattista, e che nel chiuso delle sue stanze dorate della cancelleria disegnava in gran segreto i personaggi delle animazioni di Walt Disney, si mise a denunciare l’arte moderna e a tacciare i suoi praticanti come “incompetenti, imbroglioni e pazzi”. Nella Reich nazista ogni avanguardia, ogni impulso intellettuale alla modernità, divenne degenerazione intollerabile, ed andava soffocato.

A. Hitler, “Autoritratto”, 1910.

Da quel momento l’arte dovette chinare il capo. La sperimentazione, l’innovazione, l’estro lasciarono spazio alla rigidità, alla staticità plastica in una delirante visione offerta solo a fini meramente propagandistici, che identificava nell’arte classica la capacità di mantenere la cultura incontaminata dalle influenze ebraiche. La bellezza in pittura doveva assolutamente coincidere con ideali di realismo e romanticismo, mentre la scultura e l’architettura dovevano essere colossali ed impersonali.

“Die Partei”, Arno Brecker, 1939, distrutta alla Cancelleria di Berlino .

Fu così che nel 1937 le autorità naziste, dopo aver epurato i vertici dirigenziali dei musei tedeschi, organizzarono, loro malgrado, la più grandiosa mostra d’arte contemporanea itinerante della storia.

Non venne inoltre fatto pagare alcun tipo di biglietto d’ingresso, per incentivare la visita al maggior numero di persone possibile. Vennero individuate e confiscate oltre seicentocinquanta opere, di grandissimi maestri quali: Marc Chagall, Max Ernst, Wassily Kandinsky, Ernst Ludwig Kirchner, Oskar Kokoschka, Piet Mondrian,Vincent van Gogh per citarne solo alcuni.

Manifesto dell’epoca della mostra d’Arte degenerata.

La mostra, nata con chiaro intento denigratorio, si svolse in contemporanea con la grande mostra d’arte tedesca che esponeva ed esaltava opere accettate dal regime.

Morale della favola: la mostra d’arte degenerata ebbe due milioni di visitatori, mentre quella di arte ufficiale solo cinquecentomila.

Per fare cassa e preparasi al conflitto imminente, che da li a poco avrebbe scosso l’intero mondo, le opere in mostra alla entartete Kunst finirono per essere svendute nei mercati oltre oceano. Altre finirono direttamente al macero. Per fortuna, alcuni coraggiosi e lungimiranti amanti dell’arte, come i coniugi Emanuel e Sophie Fohn riuscirono ad acquisire più di duecentocinquanta opere “degenerate” in cambio di arte romantica da loro posseduta, mettendole in salvo nella loro residenza in Alto Adige.

Il sonno della ragione generò mostri di incompetenza così grandi da creare un terreno fertile per potenti zotici come Hermann Göring, numero due del regime nazista. Il criminale di guerra, asso dell’aviazione e comandante della Luftwaffe, capriccioso collezionista compulsivo fu il più grande predone di manufatti artistici del novecento.

Herman Göring e Adolf Hitler.

I primi quadri li acquistò a Roma nel 1933, presso la galleria d’arte Sangiorgi. Durante gli anni della guerra, spogliando sistematicamente le collezioni di ebrei e razziando i musei di mezza Europa raggiunge il considerevole numero di 1376 capolavori. Iniziò ad accumulare un po’ di tutto, anche pittori “degenerati”, come un Gauguin che la moglie volle per camera sua. Oppure tre Picasso che scambiò con altri dipinti antichi. Alla fine nella dimora di Carinhall, il palazzotto che fece costituire a novanta chilometri da Berlino, esponeva da Botticelli a Rubens, passando per gli impressionisti francesi.

Mentre i russi incalzavano, nel 1945, lui imbarcò tutto (opere d’arte, tappezzerie, mobilio) in otto treni diretti verso il Sud e fece saltare in aria la magione. Ma alcuni convogli furono assaltati da tedeschi, che a loro volta rubarono diversi pezzi. Altri vagoni rimasero distrutti sotto le bombe degli Alleati.

Fece addirittura realizzare un apposito catalogo, rinvenuto nel dopoguerra all’interno degli archivi diplomatici del ministero degli Esteri francese. Ovviamente, al fine di compiere la ciclopica opera di restituzione del patrimonio trafugato, questo documento diverrà fondamentale.

Dall’analisi dettagliata di questo catalogo affiora l’ennesima contraddizione delle follie di quest’uomo. La collezione Göring, costituita anche da pregiati pezzi di provenienza italiana e francese, oltre ai già citati esempi di “arte degenerata”, tradiva ripetutamente la volontà del gerarca di costituire un insieme emblematico di ciò che considerava come l’identità tedesca.

Nelle oltre quattrocento pagine del Catalogo Göring si annoverano infatti importanti opere di Tiziano, Tintoretto, Bellini, Carpaccio, Benozzo Gozzoli, Filippino Lippi e poi di Memling (la sua Madonna con bambino della collezione Renders era tra i suoi quadri preferiti), Rubens, Rembrandt, Van Dyck, Breughel, Cranach, Durer e decine di altri grandi maestri europei.

Oltre alla Madonna con bambino di Memling il corpulento gerarca si vantava anche di un altro prezioso pezzo della sua collezione, “Il Cristo e l’adultera” di Vermeer. Peccato per lui che si trattasse di un clamoroso falso, realizzato da uno dei più grandi falsari della storia. La paternità di questo manufatto non era da identificarsi nel maestro olandese ma nell’artista fallito Hans van Meegeren, anch’egli proveniente dall’Olanda.

“Cristo e L’adultera”, Han van Meegeren, 1937.

Van Meegeren merita di essere analizzato attentamente in questa vicenda, in quanto figura di spicco nel mondo dei falsari.

Fiumi d’inchiostro sono stati scritti per cercare captare la psicologia che sta dietro alle azioni fraudolente compiute dai questi uomini. Forse per la mancanza di riconoscimenti, forse con lo scopo di prendersi gioco dei critici o per spirito di rivalsa, forse per semplice bramosia o forse per la summa di tutti questi moventi, Hans van Meegeren intraprese la sua carriera di falsario. Egli apprese le tecniche da Theo Van Wijngaarden, famoso restauratore e falsario operante ad Amsterdam. Parti quindi da una meticolosa analisi dei supporti utilizzati per dipingere, emulando gli effetti dell’invecchiamento. Si avvaleva di antiche tele del seicento, acquistando quadri di quel periodo privi di valore, raschiandoli accuratamente per poi ridipingerli.

L’abilità di Hans van Meegeren stava anche nell’evitare di adoperare pennelli sintetici prodotti nel XX° secolo oltre ad applicare ai suoi lavori della polvere per provocare la crettatura (lo spontaneo reticolo di piccole crepe, tipico delle tele a olio invecchiate).

Esempio di craquelure in un dettaglio della Monnalisa.

Era inoltre perfettamente a conoscenza delle tecniche e dei materiali adoperati da Vermeer e faceva spesso uso del raro e costosissimo pigmento blu oltremare, ottenuto dai preziosi lapislazzuli e dell’olio di lillà.

Egli dovette tutto ai suoi falsi. Ad ogni nuovo tentativo rischiava sempre di più di essere smascherato, ma non gli importava molto. Era spinto da una pulsione che quasi guidava la sua mano. Riguardo ai suoi ultimi lavori, avrebbe dichiarato: «Avevo avuto tanta voglia di dipingerli. Ormai ero al punto di non sapermi dominare. Non avevo più volontà né energia. Ero costretto a continuare». In effetti continuò eccome!

Già nel 1941 Van Meegeren disponeva di ingenti capitali frutto della vendita dei suoi falsi.

Tra il 1935 e il 1943 Van Meegeren ne aveva realizzati circa tredici. Cinque non vennero mai alienati. Per i restanti otto Van Meegeren riscosse un incasso pari a cinque milioni di fiorini.

Questo denaro convogliò in investimenti immobiliari, alberghi e opere d’arte autentiche. Van Meegeren finì per raccogliere una vera e propria collezione d’arte. Nel 1943 il falsario acquistò una sontuosa dimora nei pressi di Amsterdam, dove si ritirò, senza dipingere mai più.

Gli inconvenienti per il falsario iniziarono però a guerra finita.

Il ritrovamento nel 1945 della miniera di Altaussee in Austria nord occidentale, che fu la scenografia dell’epopea del corpo dell’esercito americano incaricato di recuperare i manufatti artistici caduti in mano ai nazisti, segnò l’inizio dei veri problemi di Van Meegeren.

i “Monument Men” in azione nella miniera di Altaussee.

Il tesoro nascosto all’interno della miniera, costituito da migliaia di reperti di inestimabile valore, unitamente al rinvenimento della già citata collezione Göring, anch’essa stipata in fretta e furia all’interno delle anguste gallerie, furono gli elementi del paradossale epilogo della carriera del falsario.

In un primo momento, quando venne portato alla luce il “Cristo e l’adultera” tutti gioirono per il ritrovamento di un così grandioso capolavoro di Vermeer. Si avviarono quindi le indagini per risalire ai responsabili dell’esodo di questo quadro verso la Germania nazista. La domanda che sorse agli inquirenti dell’epoca fu: chi furono i collaborazionisti che trafficarono il patrimonio artistico olandese con i criminali nazisti?

Nessuno sospettava, nemmeno lontanamente, che quel quadro potesse essere un falso Vermeer, e il carattere dell’inchiesta fu orientato più nel campo della politica che dell’arte. D’altro canto si iniziò a intraprendere indagini sulla provenienza di quel Vermeer. Fino a quel momento i diversi esperti, mercanti e compratori, si erano accontentati delle spiegazioni, coerenti, sebbene non prive di un certo mistero, degli intermediari del falsario. Durante la guerra simposi “infallibili” di esperti d’arte si erano già interrogati sull’autenticità delle opere spacciate da Van Meegeren, finendo sempre (o quasi) per attribuirle al grande maestro del seicento.

Fu l’indagine investigativa vera e propria, incentrata sullo stabilire i vari gradi di collaborazionismo dei soggetti implicati in questa vicenda a permettere di scoprire che in realtà si doveva indagare su ciò che si dava per scontato.

Negli archivi nazisti vennero rintracciati vari nomi riferibili ad una catena di persone che si erano occupate della vendita del quadro. Si trattava infatti di un sodalizio costituito sempre da gli stessi intermediari, quali l’agente immobiliare Strijbis e il mercante di quadri Hoogendijk, ma nel caso specifico del “Cristo e l’adultera” saltarono fuori altri nomi, ben più preoccupanti. Si constatò che il falsario dovette ricorrere a una persona che non conosceva tanto bene.

Il nuovo intermediario era Van Strijvesande. Dopo avergli affidato il Cristo e l’adultera, Van Meegeren venne casualmente a sapere che il suo mediatore era molto legato all’ambiente degli occupanti nazisti. Il presagio di un imminente pericolo iniziò a tormentare lentamente il falsario: non ci teneva a compromettersi con gli invasori, permettendo che uno dei suoi falsi Vermeer partisse per la Germania del Terzo Reich. Prese comunque contatti con Van Strijvesande, imponendogli di trovare un acquirente olandese.

Ma ormai era troppo tardi. Un banchiere bavarese, Aloys Miedl, aveva già sentito parlare della scoperta di un nuovo Vermeer, informando subito il dottor Walter Hofer, incaricato dal regime nazista di intercettare tesori artistici nei paesi soggiogati. Van Meegeren non poteva più farci niente.

La transazione manipolata da Van Strijvesande sarebbe andata in porto in ogni caso. I tedeschi volevano a ogni costo acquistare questo capolavoro del patrimonio nazionale olandese. La vendita assunse i toni di un affare di Stato.

Il prezzo che venne richiesto per questo quadro si aggirava intorno al milione e mezzo fiorini. Dopo strane e discrete trattative, la transazione si svolse nella maniera seguente: il Terzo Reich pagò “in natura” l’acquisto del Vermeer. All’Olanda, cioè, furono restituite circa duecento tele autentiche, tele che erano state rubate dai nazisti durante l’invasione e il cui valore globale superava abbondantemente il prezzo richiesto. Miedl e Van Strijvesande vendettero a loro volta le duecento tele d’autore allo Stato olandese. Successivamente versarono a Van Meegeren più della metà del ricavato.

L’affare si concluse, ma questa soluzione non entusiasmò Van Meegeren, in quanto sapeva che Miedl e Walter Hofer lavoravano per Hermann Göring. In quella occasione Göring, realizzando una trattativa come uomo di Stato per l’acquisto di beni del patrimonio di un altra nazione, si macchiò anche del reato di peculato, destinando, infatti, il “Cristo e l’adultera” alla sua collezione personale.

L’ultimo anello di questa catena di intermediari portava direttamente a Van Meeger, noto fino ad allora solo per la sua tendenza a sperperare notevoli somme di denaro.

Alla fine del maggio del 1945 gli inquirenti si presentarono alla porta del grande falsario. I due ufficiali in uniforme volevano ottenere da Van Meegeren qualche informazione confidenziale che permettesse loro di risalire alla provenienza reale del “Cristo e l’adultera”. Van Meegeren sembrava scevro da qualsiasi implicazione illecita. Lui aveva semplicemente affidato il quadro a un mercante olandese che si era preso la briga di passarlo ai nazisti.

Leggi anche  Il paradosso del falso autentico

Ma Van Meegeren ebbe l’impudenza di non voler fornire la men che minima informazione sulla provenienza del presunto Vermeer, e come se non bastasse, montò su tutte le furie, congedando bruscamente i due ufficiali. Il suo atteggiamento, così inspiegabilmente intransigente, finì per attirare su di lui non pochi sospetti. La domanda che gli inquirenti iniziarono a porsi era se Van Meegeren fosse stato o meno solo un agente di collegamento artistico tra l’Italia (da dove si credeva provenisse effettivamente l’opera), la Germania e l’Olanda, oppure se egli avesse direttamente preso parte al furto del capolavoro di Vermeer.

La versione fornita dagli intermediari iniziò a vacillare: il fantomatico venditore italiano che teneva all’anonimato per motivi di carattere familiare, non era più sufficiente a proteggere il falsario.

Improvvisamente Van Meegeren si rese conto che la solidità del suo alibi, valida nell’ambiente del mercato d’arte, era assolutamente fallace di fronte a dei funzionari che cercavano soltanto prove tangibili per un’inchiesta di carattere politico. Un conto era truffare chi di arte non ne capisce una mazza, un altro era fare i conti con i cacciatori di nazisti.

Fu così che i due ufficiali chiesero a Van Meegeren se avesse o no collaborato con i nazisti, ma il grande falsario rispose con un silenzio arrogante. Per gli inquirenti tale atteggiamento non era tollerabile e, quanto meno, dava ulteriore adito a gravi sospetti. Il 29 maggio 1945 Van Meegeren veniva arrestato sotto l’imputazione di intelligenza con il nemico: il falsario non aveva più via di scampo.

Lo sviluppo degli eventi fece si che questa storia iniziò ad assumere caratteri sepre più grotteschi.

L’assurdità stava nel fato che Van Meegeren veniva accusato di collaborazionismo per aver delapidato i proventi di una trattativa che di fatto aveva permesso il ritorno in Olanda di duecento tele d’autore autentiche. Il paradosso giudiziario stava nel fatto che, fino a che il “Cristo e l’adultera” continuava ad essere considerato un quadro autentico, e quindi parte del patrimonio culturale olandese che si andava tutelando, le accuse mosse a Van Meegeren risultavano più che legittime.

In un primo momento Van Meegeren tacque. Si chiuse nel silenzio della sua cella, rifiutandosi di parlare con tutti quelli che lo interrogavano. Irrigidito in uno sprezzante ebetismo, causato dall’astinenza dalle droghe, specialmente dalla morfina, il grande falsario non prendeva nessuna decisione.

Il 12 luglio il falsario ruppe gli indugi, riversando una marea di invettive agli inquirenti: «Imbecilli! Siete un branco di imbecilli, voi come gli altri! Io non ho mai venduto nessun grande tesoro nazionale! L’ho dipinto io stesso!»

Il falsario continuò con altre rivelazioni, tanto sorprendenti che gli inquirenti persero improvvisamente l’orientamento. L’enormità delle arroganti asserzioni di Van Meegeren sollevava seri dubbi anche sulla sua salute mentale, minata da anni di eccessi e dall’assunzione abituale di droghe.

Gli investigatori dovettero tornare al punto di partenza, ovvero identificare chi avevano arrestato.

Chi era veramente Hans Van Meegeren? Un Collaborazionista? Un abilissimo falsario? Un mitomane, un pazzo? O tutti e tre i casi riuniti in un unico soggetto?

Le indagini erano iniziate con il sospetto che Van Meegeren fosse stato un agente nazista, ma ora si trovavano di fronte a un falsario che si auto-accusava. Andava quindi “autentificata” la figura del falsario e spostare le indagini, non più nel terreno della politica, ma si doveva adesso investigare nella direzione dell’arte.

Gli investigatori cominciarono col verificare le ammissioni del falsario. Egli, infatti, ammise che il “Cristo e l’adultera” fosse stato dipinto su una tela che, prima della raschiatura, raffigurava una scena di caccia, ed effettivamente, dopo una serie di radiografie, la dichiarazione fu confermata.

Ma un indizio rimane tale, non diviene automaticamente una prova irrecusabile: il falsario avrebbe potuto benissimo, su sua iniziativa, sottoporre a radiografia l’opera per appurare cosa vi fosse nello strato di fondo. Restava il fatto che risultava ampiamente improbabile, e chi conosce l’opera del maestro olandese del seicento sa di cosa parlo, che Vermeer avesse dipinto un soggetto religioso su una scena di caccia.

Nonostante tutto, la polizia e i servizi di sicurezza volevano esser certi che Van Meegeren fosse effettivamente capace di imitare Vermeer. La loro ingenuità in materia artistica gli suggerì di chiedere al falsario, di rivelarsi come tale, attraverso l’esercizio della copia del “Cristo ad Emmaus”,un altra delle sue opere considerata autentica. Gli inquirenti ignoravano completamente che qualsiasi pittore professionista era in grado di fare la copia di un quadro, a maggior ragione se la copia era di un proprio quadro.

Van Meegeren sdegnato dall’inutile richiesta degli investigatori, come un esperto giocatore di poker che si ritrova una scala reale in mano, fece un rilancio, una controproposta. Sarebbe stato in grado di realizzare un nuovo Vermeer, non copiandolo da un Vermeer esistente, ma creandone uno ex-novo, coerente allo stile del maestro in tutto e per tutto, a patto di poter lavorare nel suo studio, e a patto che la polizia gli fornisse il materiale necessario (morfina compresa).

La controproposta venne accettata e alla fine di luglio, nella sua grande casa ad Amsterdam, costantemente sotto l’occhio vigile della polizia, Van Meegeren cominciò a dipingere il suo “Cristo tra i dottori”. Un’opera di notevoli dimensioni, non meno vermeeriana delle altre.

Van Meegeren dipinge il suo “Cristo tra i dottori” nel 1945.

Ma i due mesi che occorsero per dipingere l’opera trascorsero sotto auspici quanto meno sfavorevoli. Il clima che si addensava nello studio del falsario, fatto di sospetti e di incomprensioni volgari dei poliziotti, non intralciò l’ispirazione di Van Meegeren che seppe trovare la sua strada, dimostrando a tutti la sua maestria.

Il grande falsario ora era finalmente a viso scoperto. Van Meegeren si rivelò allora per quello che realmente era: un paradosso. Il falsario dimostrò di essere falsario, apportando come prova tutta la grandezza del suo genio.

Pure la stampa olandese si accorse di aver di fronte una storia capace di fare un rumore pazzesco. Si iniziò a parlare dell’affaire Van Meegeren, e fu come polvere da sparo per incendiare le polemiche. Anche l’opinione pubblica iniziò a domandarsi se Van Meegeren fosse un creatore, un falsario o un truffatore. Un giornale apparve addirittura con il titolo: «Dipinge per la sua vita».

Le autorità iniziarono a considerare Van Meegeren non più come un collaborazionista, ma come un falsario di prim’ordine.

Per via giudiziale era difficile provare la sua colpevolezza, anche alla luce del fatto che i compratori dei suoi falsi non erano i primi arrivati. Fra questi, come è già stato detto, vi fu lo Stato olandese. Esperti e luminari in maniera artistica, funzionari di Stato, mercanti onesti o meno, si trovavano ora pericolosamente in difficoltà.

Il governo olandese rispose guadagnando tempo. Non si aveva più nessunissima fretta di concludere il processo a Van Meegeren.

A fine settembre del 1945 il “Cristo tra i dottori” era terminato, ma si dovette attendere il giugno dell’anno successivo per la nomina, per ordine del ministero della Giustizia, di una commissione d’inchiesta, formata da esperti, da chimici e da storici d’arte, compresi quelli che avevano certificato le opere di Van Meeregen come autentici capolavori di Vermeer. L’interesse pubblico per questa vicenda non si era ancora placato, malgrado il fumo negli occhi lanciato da alcuni critici durante tutto questo tempo. A nulla servirono tutte le loro bizantine e contraddittorie discussioni. Fu solo un goffo tentativo per far dimenticare il ridicolo buttato loro addosso. Addirittura c’era chi, cocciutamente, si ostinava ancora a sostenere che le opere sotto processo fossero realmente di Vermeer.

Mentre gli esperti si scannavano Van Meeregen, con una punta di compiacenza, continuava a mettersi a disposizione della commissione fornendo a loro tutti i particolari della sua tecnica, aiutò perfino i chimici a scoprire tutte le sostanze che aveva usato per realizzare i suoi falsi. Sostanze che mai nessuno avrebbe nemmeno pensato di cercare. Guidò inoltre i radiologi, descrivendo minuziosamente il soggetto delle tele originali su cui aveva dipinto, anticipandogli quello che avrebbero trovato sotto gli strati dei quadri. I radiologi confermarono la veridicità delle sue asserzioni, convincendo gli esperti della commissione.

Le prove erano ormai tanto consistenti quanto evidenti. Non si poteva più aggiornare indefinitamente il processo.

All’alba del 29 ottobre 1947, la folla si accalcava già alle porte della quarta camera della Corte d’Assise del distretto di Amsterdam per assistere ad un processo unico nel suo genere. Non era comunque ancora chiaro se si stava incriminando un falsario, o tutto il mondo della cultura e della critica d’arte.

Infatti, non si era potuto evitare, sebbene fosse stato auspicato da tanti, di convocare gli infallibili esperti, che avevano sbagliato; i mercanti onesti, ma compromessi; gli intermediari efficaci, ma esitanti; i grandi funzionari dello Stato, irreprensibili ma spendaccioni, e si sarebbe tentato di salvare loro la faccia con sistemi legali, ma avventati. Vennero comunque interrogati, ma non su i fatti essenziali. Loro risposero, tuttavia evitando il nocciolo della questione.

L’udienza duro circa cinque ore: gli esperti erano in diciassette e ognuno parlò per circa sette miseri minuti.

L’imputato appariva meno sofferente del solito e, malgrado la sua salute fosse ultimamente peggiorata, appariva lucido ed in possesso delle proprie facoltà. Con un’aria di sicurezza in sé e di distacco, il falsario, elegantemente vestito, si presentò al palazzo di giustizia. Partì a piedi da casa sua, scortato da due ali di giornalisti, fotografi e curiosi.

Van Meegeren in Aula.

Nella quarta camera della Corte di Assise era stato allestito un vero e proprio museo. Vi era stato preparato anche uno schermo cinematografico per la proiezione delle diapositive riguardanti le perizie radiografiche. Il presidente del tribunale, in mezzo a tutti i falsi del pittore, presiedeva un’aula letteralmente tappezzata di quadri, che arrivavano perfino a coprire il ritratto della regina.

L’aula durante il processo.

Van Meegeren contemplava compiaciuto il complesso della sua produzione di falsi. Con gesti studiati e altrettanto stereotipati, alle dieci in punto, prese posto sul banco degli imputati.

Al falsario venne chiesto di identificarsi: «Siete Henricus Antonius Van Meegeren?»

Van Meegeren lo ammise volentieri. Dopo di che il procuratore lesse l’atto d’accusa. I principali capi erano: guadagni fraudolenti, false firme “su certi quadri”, “con l’intenzione di farli passare per opere di altre persone”.

«Imputato, riconoscete i fatti?», chiese il procuratore.

«Li riconosco.», rispose il falsario.

«Allora sentiamo le testimonianze degli esperti», annunciò il giudice.

La commissione al completo prestò giuramento. Le domande a cui fu sottoposta erano fondamentalmente due: “tutti i quadri in causa erano di concezione recente? Se sì, l’autore era Van Meegeren?”. I sette esperti lo affermarono.

Vennero enunciati, in maniera tanto minuziosa quanto rapida, i risultati diagnostici e le prove fisiche della contraffazione delle opere.

Il giudizio di Van Meegeren su quella dimostrazione che lo confermava falsario, fu beffardamente ricco di entusiasmo: il lavoro della commissione gli sembrava eccellente e anche prodigioso. Si rese conto che non si sarebbe più potuto compiere dei falsi come una volta.

Addirittura, secondo il falsario, il lavoro svolto dalla commissione, fu più difficile dell’esecuzione stessa dei suoi falsi.

Quantomeno ridicola fu anche la deposizione del teste de Wild, esperto che aveva consigliato l’acquisto della “Lavanda dei piedi” allo Stato olandese, un altra opera del falsario, venduta durante la guerra. L’esperto della commissione, che aveva autenticato un falso, ora avrebbe dovuto autenticare la falsità dell’opera.

Wild dichiarò: «Più tardi ho potuto eseguire una radiografia della Lavanda dei piedi, e l’esito mi ha indotto a cambiare parere.»

Bisogna notare che quel “più tardi” era dei più sibillini: le radiografie furono effettuate solo dietro richiesta di Van Meegeren.

De Wild, affrontando impavidamente il ridicolo, continuò con un elogio del suo operato: «Per me quegli esami furono più facili. Ebbi subito la convinzione che l’imputato aveva ricavato la formula della composizione di quasi tutti i suoi colori, preparati alla maniera antica, da un mio trattato sui metodi di Vermeer. Anche certe impurità, che io ho segnalato nella pittura di Vermeer, si ritrovano in quella di Van Meegeren.». Le risate in aula, davanti allo sfoggio di questo autocompiacimento quanto meno malaccorto, furono copiose.

Fu il turno degli altri membri della commissione, i mercanti: dopo Strijbis, che si difese dichiarando di essere stato un intermediario tanto efficiente quanto ignorante in materia e che “non ricordava l’ammontare delle transazioni perché non aveva conservato i documenti relativi”, toccò a Hoogendijk più grande mercante di quadri d’Olanda, che, senza mezzi termini, ammise di esser caduto nella trappola, di essersi fatto condizionare anche dall’atmosfera di quel periodo di guerra, che secondo il mercante giocò un ruolo importante nella sua cecità. C’era una sorta d’ansia e il desiderio di tenere i quadri in Olanda.

Nel pomeriggio, in meno di un’ora, sfilarono altri sette testimoni. Tutti loro sfoggiarono la loro buona dose di vittimismo.

Sul finire del processo, il presidente si rivolse all’imputato: «Riconoscete sempre di aver dipinto questi falsi?»

Van Megeeren, reo orgogliosamente confesso, rispose di si.

«Perché avete continuato, dopo l’Emmaus?», chiese il presidente.

«Ho deciso di continuare per trarre maggior profitto dalla tecnica che avevo messo a punto. Volevo continuare a servirmi di questa tecnica, che ritengo eccellente.», rispose il falsario.

Nella requisitoria e nella conclusione il magistrato non potè non tener conto che imputato beneficiava della simpatia generale. D’altronde, un sondaggio della stampa lo qualificava come l’uomo più popolare del Paese. Ciò contribuì a far si che la corte si mantenesse abbastanza indulgente con il falsario.

Le frasi più dure pronunciate contro Han Van Meegeren si rivolsero a suo vantaggio, riconoscendo la grandezza della sua impresa: «Tutto il mondo dell’arte viene sconvolto e si comincia a dubitare anche del valore dei giudizi estetici. La sanzione più grave prevista dal codice penale è di quattro anni di reclusione. In considerazione dello stato di salute e della sensibilità dell’imputato, del rapporto psichiatrico e di altre circostanze attenuanti, chiedo al tribunale che la pena prevista sia ridotta della metà.», chiese l’accusa.

Dopo una requisitoria tanto comprensiva, l’arringa dell’avvocato Heldring, della difesa, diveniva praticamente inutile: la difesa chiese «tutta l’indulgenza possibile »

Il presidente domandò all’imputato se aveva qualcosa da aggiungere. Van Meegeren, con la massima calma, rispose negativamente. La corte si ritirava in camera di consiglio. La seduta era sciolta.

Il 12 novembre 1947, Han Van Meegeren veniva condannato alla pena minima di un anno di reclusione.

Il 26 novembre 1947 Han Van Meegeren entrò nella clinica Valerium. In precedenza aveva firmato una domanda di grazia rivolta alla regina. Il procuratore fece sapere in via ufficiosa all’avvocato del pittore che la grazia sarebbe stata accordata.

Il 30 dicembre 1947 Han Van Meegeren ebbe una crisi cardiaca, e da li a poco spirò.

Per uno strano scherzo del destino, il figlio Jacques, divenne il più prolifico falsario delle opere del padre, un vero e proprio falsario del grande falsario.

Facebook Comments